Sfruttato, deriso, maltrattato da sempre, oggi per il somaro è il momento del riscatto. Come dimostra un convegno che ne decanta le doti. Terapeutiche, alimentari e non solo
L'animale schifato trova prima o poi i suoi estimatori etologicamente corretti.
Hanno celebrato il maiale, difeso le mosche, riscoperto la puzzola, scritto liriche struggenti sul fischio dell'aragosta e sul verso del piccione. È la volta dell'asino, in tutte le sue versioni e ibridi, mulo o bardotto, mongolo, quello ragusano o di Martina Franca.
Diffamato nei millenni, bastonato e deriso, l'equus asinus scopre un giorno di essere amato.
Avanza la poetica del raglio. Non sono più solo i bambini che lasciano la ciotola del latte a Santa Lucia che arriva col suo asinello, pochi alpini o eccentrici un po' svitati, come Elisabeth Svendsen, la Madre Teresa dell'asino, facoltosa signora dello Yorkshire che all'inizio degli anni Settanta finanziò il primo dei quattro Donkey sanctuary, i santuari del Regno Unito dove si accolgono e si curano tutti i somari abbandonati, umiliati e offesi della Terra.
L'esercito degli asinofili cresce, in Nuova Zelanda è un culto, negli Stati Uniti una passione, in Italia sta per diventare moda dopo essere stata una necessità. Il rischio è che diventi l'equivalente dei nani, ornamento di ville milionarie, il sostituto di Bambi nel bestiario disneyano.
Movimenti, club, associazioni online. «Asinomania» ha il suo allevamento in Abruzzo e la sua agenzia matrimoniale per asini soli, dove gli esemplari sono fotografati, raccontati e recensiti. Principessa, Arturo, Romeo, Giulietta («compagna ideale per chi combatte fermamente la monogamia» chiosa la didascalia, «una zoccola» semplificherebbero a Napoli). Asinomania spiega, accoppia e propone. Acquisti, affidamenti e adozioni a distanza, per chi non ha erba e spazio ma almeno 30 o 40 euro l'anno da destinare. Gli ultras del raglio lanciano l'allarme e invocano la specie protetta. Minacciato dall'avvento del filippino tuttofare e delle macchine agricole, l'asino rischia l'estinzione, più o meno come il panda, la balena e la foca monaca. Il ministero dell'Agricoltura stanzia finanziamenti per chi acquista un asino. Si fanno simposi. Il prossimo a Palermo, dal 21 al 24 settembre, a cura dell'Istituto sperimentale zootecnico della Sicilia. Dopo quello di Grosseto, secondo convegno nazionale dedicato alla valorizzazione delle razze asinine, «patrimonio da tutelare per le sue potenzialità terapeutiche e alimentari». Si parlerà della qualità spermatica dell'asino, di quanto sia utile e sano mungere l'asina e di come il suo latte sia il più vicino a quello materno per caratteristiche organolettiche e valori nutrizionali, una mano santa contro la stipsi e le allergie da lattosio. S'illustreranno gli sviluppi dell'onoterapia, l'asino come compagno ideale di bambini difficili e anziani soli o cardiopatici, ideale per i disabili con problemi motori, e del trekking someggiato negli agriturismi, percorsi, eventi, feste, presepi, corse, veri e propri palii a dorso di mulo.
L'asino ascolta, con quelle orecchie, ringrazia, forse, e non si monta la testa. Passa per timidezza patologica quella del somaro che tiene basso lo sguardo, non lo alza mai da terra, ma è grandezza filosofica. Nessuno sano di mente può dire di avere mai davvero guardato un asino negli occhioni. Non ha bisogno dei paraocchi come gli umani e i cavalli o dei cappucci come i santi per non guardare mai al di là del proprio muso, zoomando all'infinito come gli alpini e i ciclisti sul proprio zoccolo battente nella strada che si fa dura. La sua condanna è di essere forte e ostinato. Genialmente ottuso, cammina dritto, davanti a sé, ineffabile. Sembra secchione ma è solo accorto, scaltro, forse anche un po' spaventato, anche se non lo dà a vedere. Cammina dritto, senza mai uscire di un solo passo dalla retta via perché sa bene che, se uscisse anche solo di un millimetro, il mondo in quanto soma potrebbe franargli addosso. Là dove l'uomo si rovina l'esistenza fantasticando a più non posso, immaginando, lambiccando, rappresentando e quasi sempre per questo sfiancandosi solo al pensiero, lui, l'asino, non fa una piega, cancella e si cancella. Cancellando la prospettiva, azzera la fatica bestiale di esistere, di quanto ci attende da qui a un metro, appena dietro l'angolo. Una psiche solida. Sarà anche per questo che gli capita di campare fino ai 30 anni, senza desiderarlo troppo ma senza nemmeno considerarla una disgrazia.
All'opposto dell'inverosimile asino di Buridano, non arriva mai a paralizzarsi nel dilemma della scelta, perché non arriva mai a includere nello stesso focus due piaceri o dispiaceri che si equivalgono. Se muore di fame è solo perché quanto gli capita sotto i denti, che denti, è una delle due, tre cose per lui non commestibili che il mondo gli ha riservato, chiodi inclusi, forse, vetri, ma non si sa mai, o perché il padrone gli sta sulle scatole. Ha una personalità il somaro. Mica fesso, si fa caricare ma non va al trotto. Mangia spine e ortiche, il foraggio più scarso, l'erba che pure le vacche snobbano. Bestia empatica, cerca il contatto fisico, fila con tutti gli animali del creato, capre, cani, gatti e anatre, ma se non gli vai a genio non c'è verso o raglio. Animale reietto come pochi, per quanto sia lì da una vita con il bue nella grotta, a riscaldare il bambinello nel clou del Santo Natale. Non stanno insieme le statuine del presepe se il somaro non ce la fa ad alitare. L'uomo che si trasforma in asino nelle metamorfosi di Apuleio è la caduta nell'abiezione. Bastonato e degradato, deve nutrirsi di rose e invocare la luna per riguadagnare le sue umane sembianze. Il burattino di Collodi sopporta tutto, persino Geppetto, ma non le orecchie che spuntano, la vergogna assoluta. Quella dell'asino condizione peggiore anche del legno. Nelle favole di Fedro il maestoso leone non si lamenta tanto di morire quanto che la cosa avvenga per zampa di asino, «disonore della natura».
Nei bestiari medioevali l'asino che va ragliando in giro giorno e notte cercando la sua preda è un travestimento ennesimo di Satana, il raglio come storpiatura della voce umana ispira il lamento disarticolato del professor Unrath pazzo d'amore per la Lola di Marlene Dietrich. Dalle novelle di Verga e dalle cartoline di un'Italia che non c'è più, nella variante del mulo, l'asino incrociato al cavallo, montato da stazze omicide, donnone alla spesa, zoticoni ubriachi, alpini con obici, esattori, carabinieri, Lollobrigide strapaesane, l'asino s'inerpica ovunque, pure lui sovralimentato a grappini, senza battere uno dei suoi meravigliosi cigli. Nei detti comuni l'asino è chi legge, l'asino è il fesso che vola. L'asino più grande di ogni epoca, Frate Asino, Giuseppe da Copertino, il santo francescano analfabeta, illetterato e idiota, patrono degli studenti salentini, che per essere definitivamente asino si fa zavorrare con due secchi bucherellati da riempire d'acqua, prima di tagliare lo filo e prendere il volo. La tosse peggiore è quella asinina e nei blog dei giovani di oggi «l'asino parlante» è il cretino di turno, variante online del «anche un'asina un giorno parlò perché volle Dio» di Baltasar Gracián. Gli asini parlano da sempre, nell'Antico Testamento come nelle favole di Esopo e Fedro. Straparla anche Ciuchino, l'asino logorroico di Shrek, con la voce fessa di Eddie Murphy, quando un asino per essere credibile dovrebbe avere la voce di Robert Mitchum o quella almeno di Clint Eastwood. Bisogna arrivare alla grandezza di Robert Bresson e al suo Balthazar per scampare alla sciagura dell'asino antropomorfizzato. Il male del mondo scoperto e subito nell'ottica unilaterale dell'asino, che spoglia ogni ferocia umana di alibi consolatori, il raglio capolavoro in dissolvenza che si perde nella campagna e chiude il film.
Peggio dell'asino umano c'è solo l'asino buon cristiano di don Mazzi. Nel suo Elogio del somaro l'evangelizzazione della buona bestia si consuma fino in fondo («Battono sentieri impraticabili, disposti a tutto, portano i pesi che non vogliono portare gli altri, non si stancano mai, sono i veri amici dei poveri, cioè con poca paglia e poco fieno sono felici, terminate le loro azioni, le più eroiche, restano estranei a ogni mania di grandezza e di ricompensa»). Meglio, molto meglio, l'omaggio cantato dal grande Domenico Modugno e ragliato da Ciccio e Franco in una sequenza di Rinaldo in campo. Apoteosi del sodalizio come destino. «Siamo sempre tre, tre somari e tre briganti, siamo tre».
Fonte : www.panorama.it |